Aldo Moro
i 55 giorni che cambiarono l’Italia
di Ferdinando Imposimato e Ulderico Pesce
Interventi in video del giudice Ferdinando Imposimato
interpretato e diretto da Ulderico Pesce
“Mai abbiamo visto un attore di strenua denuncia come Pesce, trasfigurarsi nell’umanità di provincia di uomini in divisa”. Rodolfo di Giammarco la Repubblica
“Non l’hanno ucciso le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi dallo Stato.” Questa frase è il fulcro dell’azione scenica ed è documentata dalle indagini del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro, che nello spettacolo compare in video interagendo con il protagonista e rivelando verità terribili che sono rimaste nascoste per quarant’anni. Il titolo dello spettacolo è “moro” con la “m” minuscola, a voler sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo “morire”. Come se la “morte” di Aldo Moro fosse necessaria per bloccare il dialogo con i comunisti, da lui costruito, e che, il 16 marzo del 1978, giorno in cui viene rapito in via Fani e vengono uccisi i 5 agenti di scorta, sarà suffragato con la nascita di un nuovo governo appoggiato, per la prima volta nella storia della Repubblica, dal Partito Comunista. Moro sente che uomini di primo piano del suo stesso partito “assecondano” la sua morte trincerati dietro “la ragion di Stato” e lo scrive in una delle ultime lettere che fa da perno strutturale dello spettacolo: “Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese. Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno voluto veramente bene e sono degni di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.
IL RACCONTO SCENICO
La narrazione parte dai fatti del 16 marzo 1978 quando fu rapito Aldo Moro e furono uccisi gli uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Raffaele Iozzino, unico membro della scorta che prima di morire riuscì a sparare due colpi di pistola contro i terroristi, era di Casola di Napoli e proveniva da una famiglia di contadini. Raffaele, alla Cresima, aveva avuto in regalo dal nonno un orologio con il cinturino in metallo. A raccontare gli eventi è Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, che quella mattina del 16 marzo era a casa e casualmente, grazie al vecchio televisore Mivar, vide l’immagine di un lenzuolo bianco che copriva un corpo morto. Spuntava da sotto al lenzuolo soltanto il braccio con l’orologio della Cresima. Questa è l’immagine emblematica, la radice prima del dolore di Ciro. Questo dolore diventa rabbia, e questa rabbia lo spinge a rintracciare il giudice Imposimato titolare del processo al quale chiede di sapere la verità. Sarà il rapporto tra Ciro e il giudice, strutturato su questo forte desiderio di verità, a rendere chiaro al pubblico che la morte di Moro e dei giovani membri della scorta fu “assecondata” dai più alti esponenti dello Stato italiano con la collaborazione dei Servizi segreti americani. Nello spettacolo assume una funzione altrettanto importante l’incontro e l’amicizia tra Ciro Iozzino e Adriana, la sorella del poliziotto Francesco Zizzi, altro membro della scorta di Moro, proveniente da Fasano in provincia di Brindisi, che quella mattina del 16 marzo era al suo primo giorno di lavoro sostituendo la guardia titolare che la sera prima, “stranamente”, era stata mandata in ferie. Francesco, diventato da poco poliziotto, aveva una grande passione per la musica e cantava le canzoni di Domenico Modugno, pugliese come lui e come lo stesso Aldo Moro.
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